(di Marta Marchello) – “Ha deciso che i giorni pari è femmina, quindi m’ha preso la scarpa!” Così la madre di Alex parla riferendosi al figlio all’inizio dello spettacolo intitolato “Fa’afafine – Mi chiamo Alex e sono un dinosauro”, nel quale si trattano le identità di genere fluide. A volte Alex è un bambino, altre una bambina. Gli piace indossare l’elmo di Thor e il suo abito da principessa (che tiene in serbo per un’occasione veramente speciale). In America, però, non va bene. I suoi genitori non vogliono che vada in giro con i tacchi e il vestito da principessa, e i coetanei lo prendono di mira. Per questo progetta di andare a Samoa, diventare un fa’afafine e poi finalmente sposare Elliot, il compagno di classe per il quale ha una cotta.
“So che lì potete essere maschi o femmine quando volete. Ma come fate? È una magia? Un superpotere? Io voglio essere come voi. Qui è proprio diverso. La mamma e papà non vogliono che esco di casa vestito da bambina, che poi la gente ci prende in giro, ma tanto a me mi prendono in giro lo stesso”.
Lo spettacolo, ambientato nella cameretta verde pallido di Alex e nel corridoio di casa Smith, ci riporta nel mondo dell’infanzia, in cui i giocattoli sono amici e consiglieri fidati, il mondo può fermarsi all’improvviso e navicelle di tecnologia avanzatissima ci portano dove desideriamo. Questo non solo attraverso la scenografia, i meravigliosi effetti speciali e i discorsi di Alex (come quello riportato precedentemente), ma anche grazie alla magistrale interpretazione di Michele Degirolamo, perfetto nei panni del protagonista. Il tema dell’identità di genere fluida, ancora considerato un tabù nella nostra società (come tutti gli argomenti relativi alla comunità LGBTQ+), è trattato con leggerezza, pur insegnando molto allo spettatore.
L’opera è vincitrice di importanti riconoscimenti, tra i quali il “Premio scenario infanzia”, ma non fatevi ingannare da ciò: è adatta a persone di tutte le età. Assolutamente da vedere, che lo si faccia per approfondire la tematica o semplicemente per immergersi per un’ora nell’arte. Per informazioni sulle tappe del tour si può visitare la pagina facebook di Fa’afafine: https://www.facebook.com/faafafinelospettacolo/
L’identità di genere- Non sempre sesso biologico e identità di genere corrispondono. In questi casi si parla di disturbo dell’identità di genere (DIG), che consiste in una forte identificazione nel sesso opposto, il desiderio che il proprio corpo abbia le caratteristiche di quel sesso, di essere scambiato per un membro di esso e trattato come tale. Si prova un senso di malessere nel proprio corpo, il desiderio di sbarazzarsi delle caratteristiche sessuali, la convinzione di essere nati nel corpo sbagliato e la percezione di essere intrappolati in uno nel quale non ci si riconosce. “Transgender” è un termine ombrello che indica tutti coloro che non si identificano come cisgender. Ve ne sono poi molti altri: genderfluid, demigirl, demiboy…
Per sapere di più sulle identità di genere fluide abbiamo intervistato Ilaria, chiamata “Ila” da tutti (preferisce il diminutivo, perché trova che abbia una connotazione meno femminile e più neutra) e “ilastaroth” sui social.
Quando hai capito di essere genderqueer?
“È difficile stabilire un momento preciso, come anche per il mio orientamento sessuale (bi/pan). Diciamo che ho avuto “segnali” già da piccola (indossando i miei vestiti tanto quanto quelli di mio fratello, sentendomi a volte più a mio agio con quelli maschili, facendo parti maschili a teatro, idolatrando personaggi “androgeni” come Lady Oscar…) Verso fine liceo ho scoperto il gergo e le categorie LGBTQ, sia di identità che di genere. All’inizio non sapevo cosa volesse dire o cosa fossi io, ma mi sono reso conto che avevo sempre messo da parte e schiacciato questa parte di me perché mi confondeva e non credevo fosse reale, ma una volta conosciuta la comunità ho imparato ad ascoltarmi e ho visto che in effetti c’era in me un genere fluido, non solo una “ragazza maschiaccio” come a volte mi definivano”.
Come ti sei sentita quando hai capito di essere non-binary?
“Confusa, ma lo ero già prima, avevo solo il timore di non esserlo davvero, ma poi ho capito quanto effettivamente mi riconoscessi in tutte le caratteristiche della fluidità di genere e ne sono stata felice, è il modo più naturale di accogliere chi sono. Anche se tutti si riferiscono a me al femminile, per abitudine e praticità, se mi si parla al maschile non batto ciglio, per me è lo stesso, e quando mi danno della “ragazza” non sempre dico qualcosa, sarebbe complesso spiegarlo alla gente, quindi vivo in pace con la nozione che molti non sapranno né capiranno come mi vedo o sento, ma chi amo lo sa e mi vuole bene per come sono, e questo basta”.
I tuoi genitori ti hanno accettata? Quale opinione si sono fatti di te?
“Non ho fatto un formale coming out. Sanno che vado al pride da anni, che sono attiva nella comunità, e a mia mamma ho accennato, parlando, di come non mi faccia problemi ad accettare la mia parte maschile, o di come mi piacciano persone di ogni genere… di come creda che sia una realtà fluida e aperta. Anche se non capiscono del tutto, mi accettano per come sono”.
La scoperta della tua identità di genere ha avuto ripercussioni sulle tue amicizie?
“No, perché per fortuna da quando faccio teatro e università ho amici di ogni orientamento e molto aperti di mente. Certo, mi prendono in giro di tanto in tanto (chiamandomi ‘maschiemmina’ e dicendo che mi scoperei anche gli animali, scusa il linguaggio) ma tutto con affetto, non mi fanno mai sentire male per quel che sono in quel senso”.
Hai subito discriminazioni?Cisono ostacoli che devi affrontare nella vita quotidiana, che siano piccoli o grandi?
“Ho avuto qualche problema da più piccola, sono stata vittima di bullismo e il mio modo di pormi ha portato gente a degradarmi (per come non ‘seguivo bene le regole dell’essere femmina’), e una volta in particolare, dopo un pride, ho dovuto spiegare a dei ragazzi perché ci fossi andata e alcuni hanno iniziato un discorso accusatorio di come fosse “una follia contro natura” e cose così. Ma per fortuna niente di più, questo soprattutto perché non è così evidente nel mio aspetto o atteggiamento. Purtroppo la facciata è quella che conta per la gente“.
Come si fa a ritrovare sé stessi e a conoscersi al 100%? Possiamo farcela da soli o serve l’aiuto di qualcuno?
“È un discorso complesso, quasi più filosofico che altro: chi sa al 100% chi è? Non sento il bisogno di ‘ritrovarmi’ perché il mio essere così non è un essere persi o confusi più di quanto non lo sia essere una persona qualsiasi. Guardo allo specchio e non ho bisogno di vedere una donna o un uomo, vedo me. Pregi, difetti, insicurezze, e paranoie che donne, uomini e chiunque altro può avere. L’unico aiuto che serve è il non sentire il bisogno di trattare persone come me in modo diverso, di non rendere un problema da risolvere qualcosa che, in fondo, non lo è. Spero sia una risposta vagamente utile, ma così per iscritto è il meglio che credo di poter formulare“.
Come vorresti che ti trattassero le persone?
“In parte ho già risposto, ma in realtà quello che vorrei per me, come per chiunque altro, è di trattare tutti come persone, al di là di essere maschi e femmine, e di non dare per scontato che una persona sia cis o etero solo perché non presenta le caratteristiche degli stereotipi di genere che ci sono stati inculcati: le persone sono più complesse di così ed è questa la parte divertente“.
Ci sono stati momenti nei quali ti sei sentita più a tuo agio nell’essere maschio o femmina?
“Più a mio agio? Assolutamente. Non necessariamente momenti precisi legati a qualcosa di esterno, ma ci sono state giornate in cui mi sono soffermata davanti allo specchio e non riuscivo proprio a vedermi con una gonna o robe così. Mi sentivo a disagio, sbagliata, come se fosse una maschera della taglia sbagliata… e altre volte non poteva essere più giusto e normale. Adoro vestire con abiti maschili e femminili, truccarmi o meno, ho avuto capelli lunghi e cortissimi, e giocare con ogni combinazione di queste caratteristiche a volte è molto liberatorio“.