LECCE (di Martina Caione) “S’i fossi foco” è un sonetto di Cecco Angiolieri, uno dei maggiori esponenti della poesia comico-realistica, ed è collocato nella parte finale del suo canzoniere. In questo componimento l’autore dà sfogo al suo risentimento nei confronti del mondo, desiderando che la sua ira travolga anche gli elementi naturali, Dio ed i suoi genitori.
Nella prima parte il poeta ipotizza dapprima di essere il fuoco, per bruciare il mondo, poi il vento, per scuoterlo con tempeste, in seguito l’acqua, per annegarlo e infine Dio per scagliarlo nell’abisso. Subito dopo fa riferimento a elementi più concreti, infatti afferma che se fosse Papa metterebbe nei guai i cristiani mentre se fosse imperatore taglierebbe il capo a coloro che gli stanno intorno. In seguito rivolge parole molto forti ai suoi genitori, dicendo che se fosse morte raggiungerebbe suo padre e se fosse vita non starebbe con lui; nello stesso modo si comporterebbe con sua madre. Conclude poi rendendosi conto di non poter essere nient’altro che Cecco ed esprimendo il desiderio di tenere per sé le donne giovani e graziose, lasciando ad altri quelle vecchie e brutte. Il sonetto può apparire uno sfogo liberatorio, in realtà il poeta esprime in modo brusco ma efficace il suo sgomento. Il ritmo mantiene alta l’attenzione del lettore così come le esagerazioni che, data la loro assurdità, suscitano quasi il riso. La conclusione riporta ad una dimensione più reale e concreta, allo stesso tempo è una pura esaltazione dei piaceri terreni e carnali, elementi tipici di questa corrente poetica. Il clima scherzoso e leggero, in unione ad un lessico poco ricercato, rende il componimento comprensibile e il suo significato chiaro. É quasi sorprendente ed inusuale che un poeta utilizzi la poesia come mezzo di sfogo, ma in questo caso Angiolieri è riuscito molto bene nel suo intento comunicativo. Il messaggio è molto semplice e decifrabile, inoltre suscita nell’animo un desiderio di rivolta unito ad una parentesi comica situata alla fine del componimento. La sua rabbia colpisce molto chi legge e fa emergere una figura in continua lotta tra se stesso e il resto del mondo.
Omonimo titolo ha il brano musicale di Fabrizio De Andrè, pubblicato nel 1968 e facente parte dell’album “Volume III”. De Andrè nasce a Genova il 18 febbraio 1940 ed è stato un noto cantautore italiano. Si è sempre distinto a causa del suo carattere stravagante e fuori dagli schemi, ragion per cui verrà cacciato dall’istituto privato retto da suore dove ha frequentato le scuole elementari per poi essere trasferito in una scuola statale. Negli anni delle medie frequenta la scuola dei Gesuiti dell’Istituto Arecco e proprio qui un gesuita tenterà di violentarlo. De Andrè decide di non restare in silenzio, anzi, porta avanti la sua accusa in modo chiassoso e determinato, tanto da essere successivamente cacciato dalla scuola. Solo dopo, grazie all’importante carica politica del padre, viene riammesso all’istituto ottenendo l’allontanamento del gesuita. Sceglie di frequentare il liceo classico; qui non mancheranno i conflitti, in particolare con il suo professore di lettere che stenta a dargli la sufficienza. A 18 anni lascia la sua casa a causa del difficile rapporto con il padre e dopo essersi diplomato si iscrive alla facoltà di giurisprudenza; a pochi esami dalla laurea lascia gli studi preferendo seguire la sua vocazione per la musica. Entra in contatto con numerosi artisti, inizia a suonare la chitarra e cantare nei locali, conduce una vita priva di limiti fino al suo matrimonio con Enrica Rignon e alla nascita di suo figlio. In seguito trova un posto come vicepreside, lavoro che lascerà presto dato il suo esordio nel mondo della musica e la pubblicazione del suo primo album nell’ottobre del 1961.
Con il suo pezzo “S’i fossi foco” si è cimentato per la prima volta nella trasformazione in musica di un’opera della letteratura italiana. Ciò che lo ha spinto a scegliere proprio questo sonetto è probabilmente l’affinità che sente con Cecco Angiolieri: entrambe ribelli, con la voglia di farsi sentire e senza paura di affermare a gran voce il proprio pensiero. Così come fa il poeta, anche il cantautore si allontana dalla sua famiglia criticandola, per questo motivo la prima terzina in particolare, nella quale critica i genitori, è decisamente sentita e condivisa a pieno da De Andrè. La melodia quasi medievale da lui scelta per accompagnare questo pezzo è incalzante e rispecchia il ritmo del sonetto, il quale viene riportato per intero, se pur con qualche differenza. Ciò che emerge ascoltando il brano è sicuramente il forte desiderio di rivolta, unito ad una grande fermezza e convinzione in ciò che si dice. Il cantautore, rispetto all’originale testo del sonetto, dopo averlo cantato per intero, ripete nuovamente la prima strofa, probabilmente assegnandole un valore conclusivo. L’abilità di De Andrè nel trasformare in musica un sonetto scritto nella seconda metà del XIII secolo è notevole; è da riconoscere anche la bravura del poeta per aver composto un’opera estremamente attuale e dalle ideologie condivisibili anche ai giorni nostri. Inoltre il cantautore pubblica la sua versione del sonetto nel 1968, un anno passato alla storia per numerose contestazioni e rivolte, originatesi nelle università americane e in seguito giunto in Europa (quindi anche in Italia). Si può dunque affermare che la scelta di De Andrè può essere dovuta al fatto che la carica provocatoria di Cecco Angiolieri incrocia perfettamente lo spirito di quel periodo storico.
L’arte della poesia e della musica, in questo caso, si sono fuse per far sopravvivere nel tempo un capolavoro letterario e musicale.