L’appropriazione culturale

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 LECCE (di Francesca Alfieri) Da decenni la pratica dell’appropriazione culturale è al centro di accesi dibattiti, ma non è nota a tutti. Essa indica l’atto di impadronirsi di elementi tipici della cultura di un altro gruppo etnico riguardanti gli ambiti più disparati; fra essi la religione, la musica, la moda, la danza, la lingua e il folklore. Questa adozione inappropriata spesso è eseguita a danno di una comunità minoritaria che è stata sistematicamente oppressa nel corso dei secoli.

In alcuni casi i motivi dell’appropriazione cultuale hanno natura economica. Dunque essa può manifestarsi come un modo per monetizzare aspetti esistenti al di fuori del mercato senza un riconoscimento simbolico o in denaro verso la cultura a cui essi appartengono. Uno dei settori più legato a questi meccanismi è quello della moda. Infatti non di rado alcuni stilisti vengono bersagliati dall’opinione pubblica per aver sfruttato acconciature o costumi tipici decontestualizzandoli e privandoli del loro significato originario. In altri casi anche noi adottiamo questa pratica per  svago o per voga a causa della nostra superficialità e della nostra ignoranza.

Fra le capigliature che risentono dell’appropriazione ci sono i dreadlocks. Attualmente sono apprezzati anche esclusivamente per l’estetica, ma celano una storia travagliata. Il termine letteralmente significa “ciocche del terrore” e probabilmente fa riferimento alle tribù di guerrieri africani che li portavano per intimidire i nemici. Essi tuttavia venivano usati anche dagli indigeni americani, dagli aborigeni australiani, da sette giapponesi e dagli induisti devoti alla dea Shiva. Spesso vengono associati al Rastafarianesimo. Esso è un movimento religioso nato in Giamaica attorno al 1930 in un contesto di colonialismo e schiavitù dovuto alla dittatura inglese. In quel periodo i seguaci di questa  religione vedono la reincarnazione di “Jah”, ossia Dio, nel re di Etiopia Tafarì Maconnèn, noto come Hailé Selassié e identificato con l’appellativo “Ras”, cioè principe. Egli è considerato discendente di Sansone a cui la tradizione biblica lega l’importanza dei capelli. Dunque i dreadlocks per i Rastafariani simboleggiano la devozione al divino, la purezza, la non violenza e la lotta contro la colonizzazione.

Altri elementi intaccati dall’appropriazione sono alcuni tatuaggi māori. La  popolazione Māori, d’origine polinesiana, si è insediata in Nuova Zelanda attorno al 900 d.C. Il suo nome significa “normale”  e dunque si contrappone agli invasori inglesi. I Māori usavano il tatuaggio come strumento di comunicazione sociale perché indicava la casta di appartenenza, gli antenati,  il mestiere e le gesta di ogni individuo.  Esso doveva essere scelto dagli anziani del clan e veniva eseguito solo da santoni o persone incaricate chiamate “Tohunga ta Moko”, cioè tatuatori. A differenza dei tatuaggi tipici com il “moko” che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta,  quelli più decorativi possono essere  adottati anche da persone esterne alla tribù.

 Quindi bisogna comprendere che non tutte le pratiche sono riconducibili all’appropriazione. Infatti omaggiare gli elementi di un’altra cultura dandone credito, informandosi e rimanendo rispettosi, è un atto assolutamente lecito.