(di Irene Myriam Serinelli) – Il poeta Davide Rondoni si presenta così a noi, ragazzi del Liceo Classico “Palmieri” di Lecce, tappa del suo itinerario per celebrare i 200 anni dalla stesura de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi. Anniversario ricordato dagli studenti di tutta Italia il 28 maggio, recitando all’unisono alle ore 11:30 la poesia più bella di tutti i tempi. Rondoni ci parla tenendo in mano il suo libro “E come il vento…”, viaggiando nel presente con questo infinito tra i denti e nel cuore.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Cosa succede quando si incontra questa poesia? Ha duecento anni. Ma appare sempre nuova. La poesia è l’arte delle parole che sono state tessute in un testo (dal lat. texere, tessere) da un autore (dal lat. auge, aumentare) che aumenta la tua esistenza, che ti osserva attraverso quel tessuto e ti chiede: “tu, quando incontri quelle parole, come guardi la tua vita?” Il vero problema quando leggi una poesia non è chiederti cosa il poeta ha voluto dire, devi entrare in campo e capire cosa quelle parole significhino per te.
Sarebbe stupido occuparsi di Letteratura solo per occuparsi di letteratura. “Io – afferma Rondoni – ascolto la voce di Leopardi per interpretare la mia vita, le mie gioie, i miei dolori, il mio infinito”.
Per cogliere l’infinito non bisogna andare dall’altra parte del mondo, basta girare l’angolo. Così come fa (immaginiamoci 200 anni addietro) un ragazzo di diciassette anni che, in un posto non molto lontano da casa sua, scrive questa poesia. Ma perché lo fa? Perché “quando all’anima piace una cosa, aborrisce che sia finita”. Quando finisce ciò che amiamo, dice Leopardi, noi sentiamo un dispiacere. E questo senso di infinito che c’è nell’uomo si ribella alla fine di ciò che amiamo.
Ma, lo sappiamo noi, come lo sapeva Giacomo: in natura tutto finisce perché tutto è misura. E allora? Come si fa a vivere desiderando l’infinito di ciò che amiamo pur sapendo che questo infinito non esiste? Per spiegarlo, Leopardi usa le parole, proprio come facciamo noi giovani che chiediamo che le parole si movimentino per dar voce alle cose importanti della nostra vita. Ma quanto è difficile trovare l’infinito dentro di noi, lasciar esplodere questo moto dell’anima, questo grido di silenzio che preme come chi vuole venire alla luce…
Cosa rende umani se non un limite? È la siepe a slanciarci verso l’oltre. Eppure Leopardi non si sposta dall’ostacolo che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Anzi, resta lì, “sedendo e mirando” con le parole addosso e nel pensiero (“Io nel pensier mi fingo”) prova a immaginare qualcosa che somigli all’infinito. Così abbraccia interminati spazi e sovrumani silenzi, finché il cuore non si impaurisce. Proprio lì, nel momento in cui immagina l’infinito, il cuore ha uno spasimo.
Già per i Greci l’apeiron, l’infinito, faceva paura. Ed è così per ogni uomo che cerca di vivere con l’infinito addosso. Ma come fa un poeta che si spaura a naufragare dolcemente? L’infinito è davvero soltanto un frutto della nostra illusione? O lo si può sperimentare? È come il vento… Succede qualcosa. È questa la risposta: il vento, che dal nulla ridesta il poeta dal “fingo” ad accorgersi che eterni istanti lasciano lo spazio ad istanti d’eterno. Allora mi chiedo: nella mia vita ci sono i segni del vento? Dove sono? Arriveranno? Per poi, alla fine, arrendermi all’evidenza che il vento non si alza perché lo voglio io, ma perché sarà la vita a decidere quando soffiare.